di Gloria Manghetti
Mario Luzi è noto ai più per la voce alta della sua poesia; pochi sanno che il nostro autore ha scritto significativi libri in prosa come Biografia a Ebe del 1942 e Trame uscito nel 1963, entrambi caratterizzati dal prevalere del dato autobiografico, dalla registrazione puntuale di quanto il poeta veniva maturando in quegli anni. Tuttavia mai il dato diaristico prende il sopravvento, perché la nota personale è ricondotta sempre ad una più profonda dimensione esistenziale.
L’esperienza personale, di qualunque intensità essa sia, non costituisce per Luzi il fulcro del testo, bensì un momento di interpretazione del materiale magmatico offerto dalla realtà. Per questo frequente torna la domanda “Il soggetto della poesia ne è anche l’oggetto?”, in che misura è possibile e giusto distinguere tra chi scrive e la materia trattata? D’altra parte dietro i libri in prosa è impossibile non riconoscere il poeta, soprattutto quando segue il filo onirico del ricordo. Se esiste, infatti, un tratto conduttore tra le due produzioni, questo sta proprio nell’aspetto evocativo della narrazione: “Ma come poté nascere su questa terra la danza se ora nessun dolore mi appare attinente al mio viso e la lentezza di morire non ha rapporti sensibili con alcuna celerità? Pure è lì che nacque il mio verso, perduto nel suono di due misure immaginarie…”, come si legge fin dalle prime battute di Biografia a Ebe.
Illuminante in tal senso la “confessione in pubblico” che Luzi rilascia insieme a Carlo Cassola, Poesia e romanzo, datata 1973: un poeta e uno scrittore parlano del loro modo di intendere la poesia e il romanzo, senza sottrarsi a suggestioni personali che agiscono sulla trama e sulla materia della conoscenza. Se Cassola si inseriva col suo intervento nella discussione del tempo pro o contro la sopravvivenza del romanzo, Luzi si soffermava sulla funzione della poesia e sull’ufficio del poeta, come si sono venuti configurando nel corso dei secoli e come si presume debbano essere definiti in un’epoca in rapida e costante trasformazione.
Una riflessione, quella di Luzi, che trova conferma anche nella sua esperienza di prosatore, soprattutto quando viene a definire il concetto di memoria, che “non è necessariamente memoria del passato, o meglio di un passato”, perché anche il presente è “in modo oscuro, carico di memoria”. In tale percorso di conoscenza, passato e presente si allineano, quindi, “in uno speciale tempo dilatato che è il presente di tutti i tempi”.
E tornano alla mente versi lontani, quando, in Primizie del deserto, precisamente in Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, Luzi guardava, così come in Biografia a Ebe, all’eterno ripetersi del tempo, segnato dal succedersi delle età dell’uomo:
Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?
Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n’esci illesa.
Tutto l’altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna varia,
grandina, spiove, qualche cane latra,
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.
Gloria Manghetti