di Elisabetta Biondi della Sdriscia
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Con i suoi 18 endecasillabi sciolti, Avorio è una delle liriche più belle e preziose dell’ermetismo concettuale di Mario Luzi: il poeta riesce a creare un’atmosfera irreale, onirica, di grande eleganza anche grazie alle ripetute trasgressioni linguistiche, grammaticali e semantiche, di cui fa uso ispirandosi a Mallarmé, suo grande modello in questa fase della sua produzione artistica. Celebre l’incipit, “Parla il cipresso equinoziale, oscuro”: mediante l’anticipazione del verbo, usato in senso metaforico, e l’ambiguità dell’aggettivo, che connota con una precisione tecnica apparente il sostantivo e gli conferisce, insieme, indeterminatezza, Luzi realizza un perfetto esempio ermetico di immagine destituita di concretezza.
Qui equinoziale significherà “che divide a metà il paesaggio”, come l’equinozio divide in due parti uguali il giorno e la notte, ma nell’espressione cipresso equinoziale è insita, nello stesso tempo, un’idea di verticalità e staticità, un’idea di punto di riferimento ineludibile: la posizione iniziale del verbo conferisce una particolare icasticità all’immagine, fa pensare ad un oracolo: “Parla il cipresso equinoziale, oscuro” tanto più che l’aggettivo oscuro, grammaticalmente riferito a capriolo, investe del suo significato anche il parla iniziale.
Alla verticalità e staticità del primo verso della lirica si contrappongono le immagini più sfumate, evocatrici di orizzontalità e di movimento dei versi successivi, sui quali il forte valore simbolico del verso iniziale si riverbera. Il procedimento di destituzione di concretezza mediante la trasgressione linguistica continua anche nei versi successivi: con l’uso del latineggiante esulta, per salta – una sorta di risemantizzazione della parola sulla base del significato etimologico – con l’inversione sintattica di soggetto e oggetto – il complemento oggetto criniere precede il soggetto cavalle – con l’uso insolito della preposizione da con il verbo lavare, Luzi crea un’immagine priva di concretezza, che assume i contorni di un rituale di purificazione, con quelle cavalle che lavano via i baci dalle criniere, in un’acqua arrossata dal tramonto che suggerisce l’idea di una verginità perduta. “Dai baci adagio lavan le cavalle”: con l’inserimento dell’avverbio adagio, Luzi ottiene, oltre alla dilatazione temporale legata al valore semantico del termine, anche una sorta di accompagnamento musicale al lavacro rituale, mediante l’assonanza ripetuta della vocale a e l’allitterazione – baci/adagio/cavalle – impreziosita dalla sonorizzazione della consonante gutturale sorda.
Anche i versi successivi evocano immagini prive di concretezza, rese lontane nel tempo e nello spazio da una serie di accorgimenti quali il mancato uso dell’articolo, l’utilizzo del plurale in luogo del singolare e la scelta di aggettivi, collocati in disposizione chiastica tra loro, che esaltano il senso di atemporalità: vaporose sono le foreste, eccelse le città, affettuose le vele!
Giù da foreste vaporose immensi
alle eccelse città battono i fiumi
lungamente, si muovono in un sogno
affettuose vele verso Olimpia.
Notevole è l’andamento del sesto verso, che suggerisce la sinuosità dei fiumi evocati: esso s’inarca, infatti, tra il verso precedente e il successivo, snodandosi dall’aggettivo immensi, prolettico, che riverbera il suo significato anche sulle foreste vaporose di cui rende ancora più sfumati e dilatati i confini, fino all’avverbio lungamente, che, pur essendo un avverbio di tempo, sottolinea l’estensione dei corsi d’acqua, contribuendo ad accentuare l’atmosfera d’irrealtà e atemporalità e preparando il riferimento ad Olimpia, che collocherà definitivamente la scena in una dimensione mitica. Una dimensione mitica che l’esplicita allusione al sogno, l’uso traslato dell’aggettivo affettuose, il richiamo, attraverso le vele, al tema del viaggio, arricchiscono di un’aura d’indeterminatezza, sottolineata anche da un uso ambiguo degli indicatori spaziali (giù da, verso) e delle preposizioni. Contribuisce ad eliminare ogni residua concretezza l’uso metaforico del verbo battere, che Luzi, in modo inusuale, unisce alla preposizione a.
Nei versi successivi la dimensione mitica continua a prevalere con l’evocazione di un Oriente dai contorni evanescenti: il motivo delle vele e del viaggio viene ripreso e concentrato mirabilmente nel sintagma ventilate fanciulle, in cui l’uso del participio al posto di un attributo, oltre a conferire all’immagine maggiore dinamismo, la rende più sfumata.
Correranno le intense vie d’Oriente
ventilate fanciulle e dai mercati
salmastri guarderanno ilari il mondo.
Osserviamo, qui, l’utilizzo di un diverso tempo verbale, il futuro, correranno e guarderanno, al posto del presente usato fino a questo momento: si tratta del destinato futuro, già presente in Ungaretti, che trasferisce l’immagine in un tempo assente, che ha, però, l’autorevolezza del tempo passato, e ottiene il risultato di fondere passato e futuro in un tempo mitico, irreale.
Ma in questa evocazione di una perfezione mitica, inizia a serpeggiare qualche elemento non perfetto della realtà, a cominciare dalla sommessa sensualità che comincia essere presente nell’evocazione delle intense vie d’Oriente e delle ventilate fanciulle: l’ermetismo di Luzi non si risolve mai in un gioco intellettualistico fine a se stesso, e il clima simbolico, irreale, da sogno, che affiora dagli scenari esotici evocati è infranto dall’inquietudine attualizzante dell’individuo, che si esprime attraverso una vibrante interrogazione sul tema di fondo dell’esistenza: “Ma dove attingerò io la mia vita / Ora che il tremebondo amore è morto?” Il procedimento interrogativo della domanda sospesa, senza risposta, che diverrà una costante della poesia luziana e della sua instancabile ricerca di verità, compare nella poesia di Luzi proprio in questo periodo, all’altezza di Avorio e di Avvento notturno. Da questo momento in poi, con un ribaltamento impensabile solo qualche verso prima, le immagini di sogno lasciano il posto al ricordo di un sogno svanito, evocato all’imperfetto, tempo passato:
Violavano le rose l’orizzonte,
esitanti città stavano in cielo
asperse di giardini tormentosi,
la sua voce nell’aria era una roccia
deserta e incolmabile di fiori.
Tutto, adesso, ci parla del disincanto di un eden perduto: le città, non più luogo ideale, ma umano, storico, divengono esitanti, i giardini sono tormentosi, e il verbo utilizzato, violavano, assume una valenza metaforica forte, di rottura, che l’anticipazione rispetto al soggetto, evidenzia ulteriormente.
I paesaggi di sogno, le foreste vaporose, lasciano il posto all’immagine sinestetica della roccia deserta e arida, incolmabile di fiori come la vita del poeta.
Avorio è una delle poesie più rappresentative di Avvento notturno (1940), la seconda raccolta di Mario Luzi: paradigmatico di tutta la produzione ermetica, in pieno accordo con le teorie che Carlo Bo aveva enunciato due anni prima sul ”Frontespizio”, questo libro, sicuramente il più complesso e costruito di tutto l’ermetismo, presenta proprio l’inoggettualità e l’analogismo di cui Bo aveva parlato tra le caratteristiche distintive.
Avvento notturno è la risposta che Luzi diede, in via provvisoria, alla realtà di una storia umana fallimentare, nei tempi bui del fascismo e della guerra di Spagna, mentre stava per deflagrare il secondo conflitto mondiale: la poesia apparve, allora, al poeta come l’unica possibilità di vita vera, come l’unica possibilità per esprimere, nella solitudine, con un canto raffinato, la sua dissociazione dai fatti contingenti del reale e fondare, attraverso la parola-simbolo, una realtà altra, cercando di cogliere l’Assoluto attraverso la poesia. La sua poesia si fa, quindi, notturna, come il titolo della raccolta preannuncia, riallacciandosi a un clima orfico, in cui al modello di Mallarmé si unisce quello dei Canti orfici (1914) di Dino Campana, perché il poeta può rivendicare per sé solo una zona d’ombra, in cui l’elemento notturno – la notte, la morte, le tenebre – simboleggia l’incertezza e lo sgomento del poeta di fronte alla realtà: sgomento e incertezza che però non riescono a distoglierlo dal cercare risposte alle domande esistenziali.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
Nell’illustrazione: “Ritratto di Mario Luzi ” di Ottone Rosai, 1941