di Marco Marchi
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Al seguito del pittore medievale Simone Martini, che si immagina di ritorno da Avignone alla natia Siena per l’ultimo viaggio (vedi l’articolo Luzi come Simone Martini), in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, libro del 1994, la poesia di Mario Luzi compie un nuovo percorso iniziatico, purgatoriale, che punta direttamente al «cuore dell’enigma».
Ricollegarsi ad un proprio passato significherà così, per il poeta, anche recuperare a ritroso emergenze della propria poesia, concedere nuovo credito a segnali disseminati lungo un cammino già fatto, sottoscrivere ricorrenze del tipo: la «terra toscana brulla e tersa» che «fila anni luce misteriosi, / fila un solo destino in molte guise» (Dalla torre, Dal fondo delle campagne); oppure «La strada tortuosa che da Siena conduce all’Orcia / traverso il mare mosso / di crete dilavate / che mettono di marzo una peluria verde / è una strada fuori del tempo, una strada aperta / e punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma» (Nel corpo oscuro della metamorosi, Su fondamenti invisibili).
La terra promessa è Siena, «matria»-Maestà in trono di luce scolpito «tra natura e sogno»: lei, il suo paesaggio e la sua arte, che è metafora del mondo, figura delle sue dolcezze e delle sue perdite, città di Dio e dell’uomo le cui fonti celebrano in acqua e in fuoco il rito della «creazione imperante»; lei, che è memoria degli incontri primigeni del poeta-pellegrino, delle emozioni altrettanto indelebili della sua adolescenza .
Il ricordo inseparabile di Siena riattiva adesso – come affermava il poeta in Frasi e incisi di un canto salutare – il «viaggio della mia preghiera», secondo la chiamata elettiva ora prevista dall’epigrafe inaugurale da Sant’Agostino: «Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare…». Tornare «come naufrago» o «come transfuga», come chi ha percorso un faticoso viaggio di risalita vòlto ad un primum in cui colludono fisicità e trascendenza, esperienza mistica ed esperienza estetica della realtà, l’epica del vissuto biografico e la metafisica disincarnata dell’assoluto: un pellegrinaggio di ritorno all’essere, verso il riacquisto per l’uomo della sua esiliata umanità e al divino delle sue forme immanenti.
La riflessione di Simone sul senso di un richiamo per lui così indecifrabile e insieme così cogente è tramata dall’interrogazione costante sull’incanto e il disagio della creazione artistica, ma anche dalla speranza in essa riposta di rendere visibile il mistero della vita. Lungo il cammino della fede e dell’arte seguendo il «filo inafferrabile dell’universa vita», Simone, e per lui lo scriba, «vede», e la visione registra stupori, rimpianti, deliri, nostalgie, attese ansiose, al perpetuo rinnovarsi della domanda – che ancora più a ritroso, in Avvento notturno, la poesia di Luzi aveva formulato – «Verso dove?». Verso un luogo-non luogo: verso l’«accecante identità» – è la sua risposta di adesso – tra creatura e creatore, tra essere e divenire, tra autore e opera, tra – all’insegna di Dante – un primo «mai vinto sorriso» e il paradiso.
Ed ecco Simone in vista dell’agognata mèta del suo fantastico viaggio, laddove dovrebbe per lui concludersi la sua «spasmodica ricerca delle origini e del senso dell’arte, chiamata ad oltrepassarsi per attingere la verità ultima»: Siena, non torri e pietre, ma – come in un titolo del grande Federigo Tozzi – la città della Vergine.
Così Luzi può ora rispondere per bocca di Simone Martini – ora che i contrasti e le contraddizioni cedono di colpo attraverso l’esempio sublime di Maria all’accordo, all’accoglimento e al riconoscimento – a quello sguardo di città che da tempo lo affissa: «Siamo ancora / io e lei, lei e io / soli, deserti. / Per un più estremo amore? Certo».
Il traguardo è raggiunto, il ricongiungimento con l’esistente e i suoi misteriosi princìpi garantito, risolto strada facendo in solidarietà, coralità creaturale, immensa preghiera collettiva. «Ché tale diventa la creatura quale è quella cosa che ama», scriveva Santa Caterina da Siena nel secolo che fu anche di Simone Martini: una somiglianza totale, una «suprema concordanza» che talvolta, dopo la diaspora della storia, il miracolo dell’arte – nei tempi e oltre il tempo – riesce ancora a riflettere.
Marco Marchi