di Elisabetta Biondi della Sdriscia
Quando si laureò in Letteratura francese, nel 1936, con una tesi di laurea su Mauriac, Mario Luzi aveva già pubblicato La barca, il suo primo libro di poesie. Il poeta di Castello, però, aveva cominciato a frequentare la Facoltà di Lettere di Firenze con la mente rivolta alla filologia classica, allievo del grande filologo Giorgio Pasquali: solo in un secondo momento, e non senza essere passato attraverso i fascini di un’attrazione filosofica (vedi a questo proposito il post Luzi, poeta filosofo), i suoi interessi si precisarono nella direzione che tutti conosciamo. Una solida formazione classica, dunque, quella di Luzi, con studi di latino e di greco, e una grande passione per la letteratura latina.
Fra i classici latini amati dal poeta due sono gli autori che hanno rivestito per lui un particolare significato influenzando in modo significativo la sua produzione poetica: Orazio e Lucrezio. In una delle interviste concesse negli ultimi anni Luzi stesso ha con grande chiarezza spiegato i motivi della sua predilezione: “Ho sentito molto concretamente la poesia latina. Ho una preferenza assoluta per Orazio e Lucrezio, sono questi i due grandi per me, quelli che io considero fondamentali del nostro modo di vivere. Orazio è incredibile come finezza, come artista ma anche come saggezza, come invenzione, perché Orazio ha quell’esprit, quell’ardimento mallarmeano nelle liriche e quindi rappresenta a tutto tondo direi il talento di un latino, di un mediterraneo. Lucrezio è quello che rimugina, l’uomo che rimugina sulla sua esistenza, cerca di condensare in sé, come di riflesso, il mondo e di cavarne un senso” (Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio).
Orazio e Lucrezio hanno esercitato dunque una profonda influenza sulla poesia di Luzi, in maniera indipendente e complementare, perché essi agiscono su livelli diversi del discorso lirico del poeta fiorentino, tanto che nella sua opera le due funzioni, quella oraziana e quella lucreziana, sono attive contemporaneamente, non di rado contaminate tra loro. L’influenza della poesia di Orazio è individuabile nitidamente e programmaticamente da Nel magma (1961-63) in poi (Stefano Verdino nel suo Il latino di Luzi, però, ci avverte che se ne ritrovano tracce già in Avvento notturno): Luzi premette, infatti, significativamente alla raccolta alcuni versi tratti da Orazio, Satire, I, 4. In questi versi il poeta latino, rispondendo alla domanda se la commedia sia poesia, afferma: “… nisi quod pede certo / differt sermoni, sermo merus”, “se non fosse che differisce dalla prosa per la regolarità del metro, sarebbe mera prosa”.
E il sermo merus oraziano diventa da questo momento in poi, per Luzi, il modello di una poesia che, in conformità con il modello dantesco plurilinguistico, parimenti attivo, presenta un vocabolario che si allarga per abbracciare tutte le possibilità del reale e si esprime anche per interrogazioni e dialogiche ricerche di soluzioni alle domande ineludibili che la vita ci pone. Orazio resterà d’ora in avanti elemento di riferimento, e non soltanto per la sua verve linguistica o il suo sermo merus, ma anche per l’esprit di saggezza a cui la sua opera si conforma.
L’influenza di Lucrezio, che si potrebbe definire della riflessione, del rimuginamento, invece, diventa visibile negli anni Sessanta-Settanta, dopo la svolta di Nel magma, con Su fondamenti invisibili e si fa via via più intensa, fino a divenire un dato costante nella più matura fase luziana, vale a dire nella grande stagione che va da Per il battesimo dei nostri frammenti del 1985, fino alle poesie ultime di Lasciami, non trattenermi, pubblicate postume nel 2009.
È lo stesso Luzi, nei primi anni Settanta, a sottolineare l’importanza che Lucrezio ha rivestito per lui nel saggio Leggere Lucrezio equivale, dove afferma: “La poesia di Lucrezio è un vino puro e fortissimo da bere con parsimonia nei momenti di concentrazione. Non come LSD o mescalina, sia chiaro: solo come una essenza. Produce anch’essa un effetto di dilatazione dell’io (del sentimento del nostro «individuo»), ma questo effetto non dipende da rottura o da alterazione, se mai da approfondimento del sistema concettuale e sensorio che ci è proprio ed esercita un potere vivificante che a me è sempre sembrato vertiginoso”.
“Per me Lucrezio – ha chiarito Luzi nell’intervista concessa nel 1999 a Mario Specchio – è stato a un certo punto più imperativo di altri poeti.” La rilettura di Lucrezio fornisce, dunque, un contributo non trascurabile alla maturazione poetica e umana di Luzi, gli suggerisce la possibilità di una poesia non immediatamente antropocentrica, una poesia che si faccia epifania dei fenomeni del mondo, visti nel loro aspetto primigenio, nel loro nudo manifestarsi: “Leggere Lucrezio equivale spesso a guardare il mondo con occhi limpidi e spazzati sorprendendo le cose per la prima volta e allo stato nascente. La cristallizzazione prodotta dalla cultura e dalla sensibilità ereditaria ad un tratto è scomparsa. Questo accade non perché Lucrezio sia un poeta primitivo o naif, ma perché ha scoperto il punto dal quale l’universo si manifesta per quel che è, un continuo avvenimento” (Naturalezza del poeta).
Luzi cercherà, infatti, da questo momento in poi, di coniugare il più possibile, nella sua opera poetica, il continuo avvenimento con un continuo discorso che lo testimoni, un discorso non privo di una forte introflessione, che cerchi di interpretare i fenomeni del mondo, in armonia con quello che egli ritiene sia il compito precipuo del poeta. Nella sua lirica si percepirà anche un crescente senso d’inadeguatezza nel descrivere e interpretare questi fenomeni: quanto più questi si manifestano nella loro maestà, tanto più il poeta avverte il limite della decodificazione.
Si comprende, dunque, come Luzi possa essere stato affascinato da Lucrezio e dalla sua poesia, tanto da scrivere di lui: “Il respiro tellurico e cosmico che alita nel poema lucreziano potenzia e trasforma l’espressività della lingua così come dilata l’avventura dell’uomo tra annullamento ed esaltazione” (ancora in Colloquio).
La centralità del rapporto con la natura si completa nell’ultima fase della poesia luziana con un sentimento creaturale: il poeta trova la ragione della sua poesia nell’umiltà con cui, al pari delle altre creature, si sente partecipe della creazione. La sua poesia diviene insieme contemplazione estatica e riecheggiamento della coralità che si dischiude dalle cose, tanto che Carlo Ossola arriva a definire Luzi un “Lucrezio cristiano” e Antonio Prete parla di essenza “francescana e lucreziana” dell’ultimo Luzi. Con lui l’uomo si scopre parte dell’indivisa sorte, non come testimone, ma come parte dell’evento, come appare dai versi seguenti, tratti dalla raccolta postuma Lasciami, non trattenermi, in cui il poeta ribadisce il suo non essere solo testimone, ma parte dell’evento: “Stanno sopra di te / ariosamente / gli alberi erborando, / s’invoglia nel suo azzurro il cielo, / si sente persuasa / di sé, in sé precisa, a niente / remissiva ogni vita / antica ed incipiente, / ogni erba, ombra, volo, / ogni risorgiva. / Scande / la somma equalità del giorno / il verso del cucù. / Vivi e guardi, teste non sei / ma parte. Oh mondo, mondo”.
Elisabetta Biondi della Sdriscia