di Giacomo Trinci
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Pensiero, lingua, mondo: questi tre elementi disegnano una costante, un’ossessione nella storia della poesia di Mario Luzi e ne fanno una presenza centrale del nostro Novecento. Possiamo senz’altro dire che, all’interno dell’inesausta avventura della mente, si passa dal cuore dell’esperienza ermetica e goticizzante dei primi quattro libri, caratterizzati da un febbrile, astratto e acuto fuoco elegiaco e vertiginoso (questo fino al Quaderno gotico del 1947) all’interrogazione esitante, sommessa ma tenace, delle raccolte successive, aperte al segno purgatoriale con cui la realtà si apre, lascia filtrare segnali enigmatici e potenti insieme. Si arriva, infine, a quel germogliare finale di una vita interrogata nel pulsare eterno interno delle metamorfosi, cui dà forma una poesia sempre più musicalmente declinata in fugati tenui, aerei, potentemente scolpiti.
All’interno di questa parabola sommariamente delineata, questa poesia del 1949, tratta da Primizie del deserto, costituisce proprio un esempio significativo e potente di quella svolta dell’ispirazione di Luzi che caratterizza la sua poesia nel dopoguerra, e dà il segno di un progressivo ampliarsi del suo orizzonte e del suo cammino. Qui la realtà della memoria esistenziale acquista quella tonalità di enigma che costringe ancora l’autore a scavare, scrutare dentro se stesso, a perlustrare vita e riflesso di essa dentro la mente. Orizzontalità della vita e verticalità della riflessione si contrappongono l’una all’altra in una dialettica che da ora in poi non cesserà di caratterizzare il compatto percorso della poesia di Luzi.
Innanzitutto, partiamo dal titolo, Notizie a Giuseppina dopo tanti anni: la parola “notizie” evidenzia il carattere discorsivo, per non dire didascalico, del riferimento, in una sorta di rinuncia a quelle forme più nobili e appariscenti del dire che avevano segnato la poesia precedente. La poesia è indirizzata a Giuseppina Mella, maestra conosciuta una quindicina di anni prima, ed ha il tono di una lettera di risposta ad un biglietto di saluto e di ricordo inviatogli anni dopo il loro incontro da Giuseppina stessa. Si stabilisce, quindi una relazione esitante, tenera, con il mondo esterno, con la biografia, che, fino a questo momento, nella storia della poesia di Luzi aveva coinciso con un dramma della mente e qui era rimasta chiusa.
Sono tre strofe di endecasillabi, ma il canto della memoria e il suo enigma fra sopravvivenza e spegnimento, vita fragile e spettro, è detto come senza sussulti apparenti, con un ritmo equo ed uguale. Nella prima strofe, si interroga l’apparizione nello spettro della memoria. Sappiamo quanto il tema poetico e religioso dell’apparizione della donna sia stato privilegiato nel grande immaginario della stagione dantesca e stilnovista; qui, la confidenza con cui la donna è convocata, il vocativo “amica” del primo verso, evoca per contrasto il riferimento aulico dell’apparizione di una Beatrice confitta anch’essa in un’età sospesa, fra un passato che fugge e un futuro dal sentore di morte.
La seconda strofe evidenzia la situazione di un Dante confitto nel proprio purgatoriale vuoto: “Mi trovo qui a questa età che sai”, con quel “che sai” che significa confidenza, colloquialità, e angoscia. Le parole non sembrano più avere illustri aloni, eppure non sono per questo “naturali”: conservano la struggente misteriosità di un sogno. Purgatoriale, appunto. E’ in questa stupefacente ambiguità semantica, la grandezza di questa fase poetica di Luzi.
Nell’ultima strofe, il mondo dorme il suo “sonno avventuroso”: “il fiume scorre, la campagna svaria”. La visitazione memoriale avviene in questo spazio reale e metafisico insieme, così che il dibattito religioso che segna il percorso della sua poesia appare ormai congiunto meravigliosamente ad un determinato paesaggio fisico e mentale. Come il poeta dirà mirabilmente: “Tutto quello che deve essere è ancora”.
Giacomo Trinci