«Tutto Dante – ha affermato con icastica efficacia Mario Luzi – è un dramma che cerca di ricomporsi in una suprema catarsi e in una raggiunta armonia». In questa prodigiosa, irresistibile attrazione, in questa coltivata e partecipata tensione è dato intravedere al lettore di Luzi che sia a conoscenza dell’intera sua opera poetica quella luce ritrovata, quel sorriso colto con Dante come un inprinting dell’esistente. Un inprinting rintracciato e celebrato, grazie alla poesia, oltre l’oscuro affliggente, da selva dello smarrimento che nel Novecento e nell’incipiente Duemila si è fatto e si fa sgomento, da selva della «mortalità» e della Storia: oltre l’inferno stesso, e oltre le brucianti incarnazioni visibili dell’assurdo dei lager e delle residue speranze di umana sopravvivenza lì coltivabili, espresse proprio attraverso il ricordo a Dante in Se questo è un uomo di Primo Levi.
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Luzi, Venturino e la “Commedia”
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fe’ prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;
Paradiso, XVII, 121-123
È noto come l’esempio di Dante e della Commedia abbia costituito un termine di riferimento costante e imprescindibile per il nuovo corso della poesia luziana del dopoguerra, sempre più responsabilmente implicata nella magmaticità dell’esistenza individuale e cosmica (vedi qui il post Luzi e Dante). La lezione di Dante riflette in Luzi un’immagine della poesia conforme alla sua ispirazione testimoniale e profetica: un’immagine “salutare”, desiderante e dinamica, che dall’hic et nunc della nostra transitoria e contraddittoria condizione umana risale al principio unitario e perenne della vita. Dante diventa progressivamente per Luzi un eterno contemporaneo con il quale confrontarsi nell’esercizio di una poesia che si vuole “pari alla vita”.